Nato a Parigi il 15 ottobre del 1930, è deceduto questa sera a Roma: era malato da tempo. In carriera quasi 200 apparizioni tra film e tv. Si era imposto al pubblico italiano come Yanez nel Sandokan del 1976 al fianco di Kabir Bedi. Le sue ultime apparizioni erano state nei panni del vescovo nella fiction Don Matteo e nel film “La notte è piccola per noi” di Francesco Lazotti, nel 2019
L’attore francese Philippe Leroy è morto questa sera a Roma. Aveva 93 anni ed era malato da tempo. Con lui se ne va una leggenda, un autentico personaggio oltre il cinema nonostante le quasi 200 apparizioni tra film e sceneggiati, da Il buco di Jacques Becker (1960) fino agli ultimi successi come vescovo di Terence Hill nella fiction Don Matteo e all’ultimo congedo sul grande schermo con La notte è piccola per noi di Francesco Lazotti nel 2019.
GLI ESORDI
Nato a Parigi il 15 ottobre del 1930 come Philippe Leroy-Beaulieu, erede di una famiglia aristocratica con sei generazioni di soldati e ambasciatori alle spalle, sdegnoso del suo titolo di marchese, va a scuola dai gesuiti, a soli 17 anni si imbarca come mozzo su una nave per l’America come un personaggio di Joseph Conrad. Una volta rientrato in patria finisce nella Legione Straniera e va a combattere in Indocina ed Algeria, arruolato come paracadutista anche se non si butterà mai da un aereo fino a dopo i 50 anni. Torna dall’Algeria con il grado di capitano e le medaglie sul petto (due legion d’onore e una croce al valore), ma decide di lanciarsi nel cinema e Jacques Becker – colpito dal suo fisico asciutto, l’aria di chi ha visto il pericolo da vicino e conosce le armi – lo arruola nel cast del suo carcerario film Il buco che gli regala un inatteso successo mondiale. L’aria in Francia però è pesante alla vigilia dell’indipendenza d’Algeria e Leroy, passati da poco i 30 anni, capisce che per lui è meglio non restare.
I LAVORI IN ITALIA
Grazie al clima favorevole delle coproduzioni cinematografiche tra Italia e Francia passa la frontiera e sfrutta le poche conoscenze accumulate a Parigi per ottenere qualche ruolo come attore. Lo aiutano Vittorio Caprioli e Franca Valeri che ha incontrato in teatro ed è Caprioli a offrirgli un ruolo in Leoni al sole (1961) sfruttando la sua seconda dote: maniere perfette, portamento aristocratico, aria naturale da gentiluomo. Per entrambi è una sorta di debutto, ma il giovane francese ha molte frecce al suo arco e viene “adottato” a Cinecittà. Dall’avventuroso Riccardo Freda all’impegnato Giancarlo De Bosio, dall’amico Gianni Puccini (quasi un pigmalione) al popolare Luigi Zampa, trova sempre un ruolo adatto, spesso come “villain” crudele e freddo. Poi nel 1965 con Sette uomini d’oro di Marco Vicario ha il ruolo del cervello di una banda di rapinatori, a fianco di Rossana Podestà e di Gastone Moschin. Il film è campione d’incassi dell’anno e frutterà anche un sequel. Diventa il suo passaporto per un mestiere che non gli assomiglia ma che lo renderà invece una figura doppia e ricorrente nel cinema italiano: gentiluomo raffinato da una parte, antagonista spietato e crudele dall’altro.
LA TELEVISIONE
La tv per lui è stata strumento di consenso popolare che gli offre nel 1971 la seconda svolta nella carriera: lo convoca Renato Castellani e gli cuce addosso i panni di Leonardo da Vinci nello sceneggiato omonimo. Il suo temperamento si ricongiunse alla fine, 5 anni dopo, con la professione: nei panni del flemmatico portoghese Yanes de Gomera nel Sandokan di Sergio Sollima divenne una vera star e scolpì un’incarnazione salgariana indimenticabile, amata da 30 milioni di spettatori a puntata. Benché si fosse misurato con il teatro, benché avesse recitato anche per Godard, Comencini, Luigi Magni, Jacques Deray, Dario Argento, Luc Besson, benché avesse vestito da protagonista i panni di preti (Ignazio de Loyola in State buoni se potete), ufficiali (R.A.S. di Yves Boisset), ex-nazisti (Portiere di notte di Liliana Cavani), fu proprio la tv a offrirgli i ruoli migliori: Quo vadis?, Il generale, Elisa di Rivombrosa, L’ispettore Coliandro e perfino I Cesaroni.
LA VITA PRIVATA
Ma la sua vera vita era sempre più spesso fuori dal set: passati i 50 abbraccia finalmente la passione per il paracadutismo e verrà ricordato per gli oltre 2000 lanci fin dopo gli 80 anni. Ancora nel 2011 fece l’osservatore in Afghanistan nel contingente italiano: “Parà fra i parà” come ricordava con divertito orgoglio. Altrimenti stava volentieri a casa, scrivendo poesie, dipingendo, disegnando i suoi mobili. Nel 1990 aveva sposato Silvia Tortora, scomparsa nel 2022, da cui ha avuto due figli.
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